Telecamera di videosorveglianza puntata sulla strada che riprende i vicini non integra il reato di “violenza privata”
Il monitoraggio da parte di un privato di un’area in cui vi è anche pubblico passaggio non costituisce un trattamento a carattere esclusivamente personale e domestico se effettuato per oggettivi motivi di sicurezza della propria abitazione.
Ecco come ha risposto la Suprema Corte di Cassazione – con la recente sentenza n. 20527 del 13.5.2019 – al quesito che molti ancora oggi si pongono: quando il sistema di videosorveglianza privato è lecito?
Operando un bilanciamento tra il valore fondamentale della libertà individuale e quello della sicurezza, entrambi parimenti meritevoli di tutela, il Giudice di legittimità ha escluso la rilevanza penale del comportamento di un privato che aveva collocato – rispettando la prescrizione della preventiva informativa a pubblico – un sistema di videosorveglianza lungo il perimetro dell’abitazione con telecamere rivolte all’esterno, in quanto finalizzato proprio alla protezione dei beni primari della sicurezza, della vita e della proprietà privata.
La videoripresa carpisce – e a volte registra – immagini di persone identificabili che, di per sé, costituiscono un dato personale (art. 4, 1-2 Reg. UE 679/16; Cass. Sent. n. 17440/2015; Garante, provv. del 10/04/2010, doc web 1712680; provv. del 01/01/04, doc-web 1044254 ).
Pertanto, l’attività di videoriprendere comporta un trattamento di dati personali.
Il Garante è intervenuto sul punto e ha statuito che l’utilizzo di telecamere da parte di privati è lecito se finalizzato alla tutela della sicurezza di persone e cose da un concreto pericolo di aggressioni altrui (v. Cass., sent. n. 71 del 03.01.13, secondo cui “l’installazione di impianti di videosorveglianza è illegittima ove avvenga in luoghi non soggetti a concreti pericoli per i quali non esistono effettive esigenze di controllo”). Il pericolo deve essere concreto – ad esempio, giustificato da subite rapine o atti di vandalismo – in quanto l’impiego della videosorveglianza, strumento altamente invasivo della riservatezza individuale, dovrebbe essere considerato come l’estrema ratio.
Come detto, la liceità dell’attività di videoripresa è frutto di un bilanciamento tra la necessità di proteggere persone e beni e, dall’altra, la riservatezza di chi, senza aver previamente prestato il proprio consenso, viene ripreso.
L’installazione di sistemi di videosorveglianza con riprese del pubblico transito non costituisce in sè un’attività illecita.
E, come affermato nella parte motiva della citata sentenza della Suprema Corte, l’individuare percorsi alternativi per rientrate in casa, o altre aree di sosta dei veicoli, per sottrarsi alle riprese delle telecamere concretizzano condizionamenti espressivi di una significativa costrizione della libertà di autodeterminazione, tutelata dalla fattispecie di reato di cui all’art. 610 c.p..
In materia di riprese tramite strumenti di videosorveglianza, la normativa che disciplina il trattamento dei dati personali prevede che chiunque installi un sistema di videosorveglianza deve provvedere a segnalarne la presenza, facendo in modo che chiunque si avvicini all’area interessata dalle riprese sia avvisato della presenza di telecamere già prima di entrare nel loro raggio di azione. Si tratta della cd. informativa breve.
In tal senso, la CEDU (C. Giust. UE causa C-212/13 dell’11.12.2014), richiamata dal Giudice italiano, ha precisato che, pur non considerandosi la videosorveglianza che si estende allo spazio pubblico, quella cioè installata dal privato e diretta al di fuori della sua sfera privata, un’attività esclusivamente personale o domestica, tuttavia, ciò, che in astratto è illegittimo, può essere considerato lecito se, secondo il giudice nazionale, nel caso concreto, vi sia un legittimo interesse del responsabile del trattamento alla protezione dei propri beni come la salute, la vita propria o della sua famiglia, la proprietà privata. In tali casi, se ciò è strettamente necessario alla realizzazione dell’interesse del responsabile del trattamento, il trattamento di dati personali può essere effettuato senza il consenso dell’interessato. La Corte ha precisato che, ricorrendo tali condizioni, è sufficiente la informazione alle persone della presenza del predetto sistema.
Più precisamente, i soggetti che transitano in un’area dove è in funzione un sistema di videosorveglianza, devono esserne informati mediante l’affissione di un cartello che:
“deve essere collocato prima del raggio di azione della telecamera, anche nelle sue immediate vicinanze e non necessariamente a contatto con gli impianti;
deve avere un formato ed un posizionamento tale da essere chiaramente visibile in ogni condizione di illuminazione ambientale, anche quando il sistema di videosorveglianza sia eventualmente attivo in orario notturno (o perché illuminato o perché comunque dotato di un sistema di catarifrangenza o di fluorescenza);
può inglobare un simbolo o una stilizzazione di esplicita e immediata comprensione, eventualmente diversificati al fine di informare se le immagini sono solo visionate o anche registrate”
e deve sempre rimandare al testo dell’informativa estesa e completa di tutti gli elementi di cui all’art. 13 del Reg. UE 679/16, che deve essere a disposizione del soggetto interessato che la richieda (Garante, art. 3.1 provv. 08/04/2010).
“La segnalazione deve essere effettuata tramite appositi cartelli, collocati a ridosso dell’area interessata, ed in modo tale che risultino chiaramente visibili. L’avvertimento in parola è, evidentemente, finalizzato a rendere edotto “quispue de populo” della presenza di strumentazione atta alla captazione di comportamenti che lo riguardano.
In tale contesto, se, per un verso, l’avvertimento, rectius, la consapevolezza della presenza del sistema di videosorveglianza può costituire un condizionamento della libertà di movimento del cittadino, d’altro canto, consente a quest’ultimo di determinarsi cognita causa, selezionando i comportamenti consequenziali da tenere. Si tratta, dunque, di un delicato equilibrio di compromesso tra libertà individuali ed esigenze di sicurezza sociale” (Cass., sentenza n. 20527 del 13.5.2019, cit.).
Insussistenza di reato, a ogni modo, non vuol dire che non si possa incorrere in un illecito civile.
Qualora sia il singolo privato a dotarsi di telecamere per difendere la sicurezza della propria abitazione e costui non comunichi o diffonda i dati a terzi, ma si limiti a “trattarli” all’interno della propria sfera privata, gli obblighi previsti dalla normativa sulla privacy non si applica.
Se il privato, cioè, si limita a riprendere le sole zone di sua competenza, senza alcun coinvolgimento di aree altrui, e i dati videoripresi rimangono nella sua esclusiva disponibilità, egli attua un trattamento “a carattere esclusivamente personale o domestico”, che rende inapplicabile il Regolamento Europeo (cfr. art. 2, comma 2, let. C, Reg. UE cit.). Dunque, nessuna informativa breve ed estesa.
Ma se il privato invade le zone di pertinenza altrui non può considerarsi un trattamento “a carattere esclusivamente personale o domestico”, pure se giustificato da comprovati e legittimi motivi di sicurezza della propria abitazione e dell’incolumità della propria famiglia (Corte Europea, C-212/13, cit.). Pertanto, a prescindere dalla diffusione o comunicazione a terzi dei dati raccolti, egli non avrà necessità del consenso dell’interessato (art. 6, comma 1, let. F, Reg. UE, cit.), ma dovrà applicare il cartello dell’informativa breve e predisporre l’informativa estesa di legge da mettere a disposizione su richiesta (ex art. 13 Reg. UE cit.).
Nei casi dubbi, ai sensi dell’art. 144 del D. Lgs n. 101/2018 (Codice Privacy), è possibile rivolgere una segnalazione al Garante che valuterà se adottare i necessari provvedimenti.