La collaboratrice domestica viola la privacy del datore di lavoro se fotografa le stanze della di lui abitazione dove lavora? La risposta della Suprema Corte di Cassazione, adita per risolvere la questione, è negativa.
Nel caso specifico una donna ha promosso una causa di lavoro nei confronti del proprio datore per vedersi riconosciute le differenze retributive e contributive, in quanto assunta senza regolare contratto.
Al fine di dimostrare al Giudice del lavoro di aver effettivamente lavorato, ella ha prodotto alcune fotografie degli ambienti in cui prestava la sua opera, e in particolare delle stanze della casa del suo datore di lavoro.
Questi ha sostenuto che tale condotta – e segnatamente, l’aver fotografato ambienti privati – integrasse il reato di cui all’art. 615 bis c.p. rubricato “interferenze illecite nella vita privata” e, per tale ragione, presentava denuncia-querela nei confronti della donna.
Il Tribunale, prima, e la Corte di Appello, dopo, gli hanno dato ragione e, per l’effetto, hanno ritenuto la ex collaboratrice domestica responsabile per il reato citato condannandola alle pene di legge.
La donna non si è arresa e ha impugnato la sentenza emessa dalla Corte di Appello avanti la Corte di Cassazione che, con pronuncia n. 46158/2019, ha ribaltato la decisione, assolvendola perché il fatto non sussiste.
Doveroso è spiegare che l’art. 615 bis c.p. punisce chi, con strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura notizie o immagini relative alla vita privata che si svolge nei luoghi indiati dall’art. 614 c.p. (privata dimora o luoghi ove si svolgono attività professionali, o appartenenze di essi).
“Oggetto di tutela è la proiezione spaziale della personalità nei luoghi in cui questa si manifesta privatamente” (Cass., Sez. 5, n. 36109 del 14/05/2018).
La giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che non integra il reato di interferenze illecite nella vita privata la condotta di colui che, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva, in un’abitazione in cui sia lecitamente presente, filmi scene di vita privata, in quanto l’interferenza illecita normativamente prevista è quella realizzata dal terzo estraneo al domicilio che ne violi l’intimità, mentre il disvalore penale non è ricollegato alla mera assenza del consenso da parte di chi viene ripreso.
In altre parole, “non può commettere il delitto indicato chi si trovi lecitamente nell’abitazione all’interno della quale effettui una registrazione (di qualsivoglia azione si stia compiendo), perchè tale soggetto è divenuto parte di quella “vita privata”” (Cass., Sez. 5, n. 27160 del 02/05/2018).
Ma vi è una condizione in più.
Se si carpiscono immagini o notizie attinenti la vita privata di soggetti che si trovino nell’abitazione, stabilmente o quali ospiti occasionali, l’autore delle riprese deve essere presente e condividere con essi, e con il loro consenso, gli atti di vita privata oggetto di captazione.
Quindi, è configurabile il reato se l’autore del reato – lecitamente all’interno dell’abitazione –: 1) che non compaia nelle registrazioni effettuate; 2) che risulti, anche momentaneamente, escluso dal luogo ripreso a beneficio della riservatezza altrui. Ossia quando non partecipa alla vita privata dei soggetti ripresi (Cass., Sez. 5, n. 36109 del 14/05/2018, cit).
Poste tali necessarie premesse, nel caso oggetto di interesse la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto “indubbio” che la donna fosse autorizzata ad accedere nel luogo di abitazione del datore di lavoro, così come ha ritenuto pacifico il dato della “produzione delle immagini, relative agli ambienti interni e al mobilio ivi presente, nel corso del giudizio avente ad oggetto il rapporto di lavoro subordinato intercorso tra la prevenuta e le parti lese” [rectius, il datore di lavoro].
Ne consegue, “acclarata la legittima presenza della ricorrente nei luoghi di privata dimora di pertinenza delle persone offese, la mancanza di un disvalore obiettivo, non essendo state riprese scene della vita privata, ma solo gli ambienti e i loro arredi. E ciò è confermato, senza necessità di richiamare l’esimente dedotta, anche dalla limitatezza del fatto, considerato obiettivamente, al solo ambito del giudizio, a fini strettamente legati alla difesa della stessa ricorrente. Trattasi di circostanze che escludono per altra via il carattere indebito della ripresa limitata ad una ristretta utilità”.
Per questi motivi la ex collaboratrice è stata assolta per insussistenza del fatto di reato contestatole.